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41 ANNI DA PARROCO DI MACCHIA, TRA BICICLETTA, CAMPAGNA E AMORE PER I FEDELI

 

 

Se vi foste trovati a passeggiare, ad esempio una mattina del maggio del 1948 nella piazza di Macchia, avreste visto passare un personaggio in bicicletta, salutato da tutti con affetto, diretto verso la chiesa. Il suo nome era Angelo Marino, di cognome Mollichelli, ed è stato per 41 anni consecutivi il parroco del paese. Usava spostarsi in bici don Angelo e già questo è inusuale, ma è la sua intera vita a essere ricordata con amore proprio perché piuttosto atipica, per il ruolo ricoperto. 

Nacque a Macchia d’Isernia l’11 febbraio 1886, da Michele e Filomena Pettine, seminarista a Venafro. Fu ordinato sacerdote nel 1914 e subito inviato al fronte, come cappellano militare per 4 mesi ad Arona. Dopo la smobilitazione fu aiuto segretario comunale e dal 7 settembre 1926 divenne arciprete della parrocchia di San Nicola di Bari di Macchia, di cui fu poi parroco titolare ininterrottamente per 41 anni, fino alla fine dei suoi giorni. 

Era un uomo generoso don Angelo, anticipava di tasca sua gli affitti e le decime che i parrocchiani dovevano alla mensa Arcipretale di San Nicola e che per un motivo o un altro non potevano versare nei tempi previsti. Amava andare in campagna e partecipava, insieme ai collaboratori di casa, alla coltivazione della terra. Si spostava in bicicletta (una sorta di Don Matteo ante litteram!), aveva sempre una buona parola per i suoi parrocchiani e concedeva di buon grado il placet per chi richiedeva il passaporto per emigrare negli USA o in Australia, soprattutto negli anni precedenti e immediatamente successivi la Seconda Guerra Mondiale.

Don Angelo Marino Mollichelli morì il 1 luglio 1971.
Il suo dolce ricordo vive tuttora.

 

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ZI PIETR: LO STORICO FALEGNAME DI MACCHIA CHE ANDO’ OLTRE LA LAVORAZIONE DEL LEGNO

 

 

Quella di “Zi Pietr” è stata una vita intensa, avventurosa, piena di connessioni, vicende e storie che hanno modificato profondamente anche la vita del paese. Leggendo i racconti delle sue gesta e di chi lo ha conosciuto e amato, ciò che possiamo affermare con certezza è che non è mai stato un uomo banale.

Pietro Pirolli nasce a Macchia d’Isernia nell’estate in cui scoppia la Prima Guerra Mondiale, il 14 luglio 1914, da papà Vincenzo e mamma Antonia. Tre fratelli e una sorella compongono il suo nucleo familiare, che vive in una casa affacciata su Borgo Elena, adiacente alla chiesa di San Nicola. Nel 1927 termina la quinta elementare e inizia a frequentare la falegnameria Cicchetti di Isernia, per “imparare il mestiere”. Otto anni dopo parte per il servizio militare, direzione Casale Monferrato. Nel 1938 Cicchetti si trasferisce a Roma e lui, tornato in Molise, decide che la sua vita sarà da falegname. Acquista l’attrezzatura del suo maestro e apre una bottega a Macchia. Il mondo è però in subbuglio e nel 1940 Pietro deve partire per quella che ha sempre definito “la guerra prduta”. Viene fatto prigioniero dagli inglesi a Bardia, in Libia, e rinchiuso 5 anni nei campi di prigionia in Sud Africa, dal 4 gennaio 1941 al 15 marzo 1946. Un’esperienza terrificante, che gli vale la Croce al Merito di Guerra. Finita la guerra torna a casa dove, nel febbraio del 1949, sposa Maddalena, unione da cui nasce una figlia, Michelina.

Negli anni ’50, quando a Macchia l’elettricità è gestita dalla ditta privata Agostino Spinosa, Zi Pietr deve contribuire economicamente alla costruzione della linea elettrica dalla cabina collocata in località Taverna fino al centro abitato, perché altrimenti non ha forza motrice per la sua attività. Di fatto, l’elettricità a Macchia la porta lui. La sua bottega è un punto nevralgico, lì c’è il primo e unico telefono pubblico dell’epoca: funziona a scatti e i componenti della sua famiglia fanno da centralinisti del paese, provvedendo ad avvisare coloro che ricevono le telefonate, soprattutto dai parenti all’estero. Mensilmente va a Napoli in “corriera” per acquistare il materiale necessario alla sua attività, mentre se deve recarsi a Isernia lo fa in bicicletta, sostituita poi dal 1958 da una fiammante Lambretta, una delle prime acquistate a Macchia. Gli studi e i disegni fatti negli anni di prigionia gli tornano utili per affinare la sua arte, che viene riconosciuta e apprezzata anche nei paesi limitrofi. Produce opere meravigliose interamente a mano, partendo da semplici pezzi di legno: mobili, porte, finestre, ma anche “’ru taut”, cioè le bare, in cui spesso i bambini che passano nella sua bottega si nascondono per scherzo, sotto il suo sguardo divertito. Il carro, che trasporta ancora oggi la statua della Madonna delle Valli, durante la processione tradizionale delle Feste di Agosto, è sempre stato affare suo.

All’inizio degli anni ’80 lascia l’attività per problemi di salute.
È stato il falegname storico del paese, questo è indubbio, ma il suo ruolo è andato anche oltre la semplice lavorazione del legno, aggiungendo quel qualcosa in più che rende il racconto della sua vita ancora più affascinante. 

“Zi Pietr” ci saluta il 24 novembre del 1987.

 

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IL BAR DI ZI PEPPNELLA

C’era un tempo in cui il bar era il cuore pulsante del paese e attorno ad esso ruotava la vita dell’intera comunità. Avvicinando l’orecchio alle pareti di quel locale si poteva sentire distintamente l’eco di storie mirabolanti, di lavoro, di fatica e di famiglia. Oggi che i bar soffrono a causa del #Covid casca a pennello la vicenda umana di Giuseppina Mainardi, conosciuta da tutti come Zì Peppnella, classe ‘1925, che più o meno nella metà degli anni ’50 del secolo scorso prese in mano il bar della piazza di Macchia.

Gestire un bar è oggi una faticaccia, allora era un’impresa. Prendete il ghiaccio, mica c’erano le macchine per farlo. Il marito, Generoso De Luca detto “Tito”, partiva di notte con l’asino in direzione Mainarde, carico di tini di legno al cui interno metteva la paglia su cui avrebbe poi collocato il ghiaccio, conservandolo intatto fino a Macchia. Peppnella faceva un buco con la pentola di rame nel ghiaccio, per farla congelare, e iniziava a montare il gelato. Due gusti, crema e limone. Due misure, 5 e 10 lire.

La produzione del bar seguiva i ritmi delle stagioni e così d’estate, a luglio, Peppnella essiccava il grano davanti casa per produrre la farina, che sarebbe servita per cucinare. Era presenza fissa al mulino e coltivava l’orto, per avere sempre ortaggi freschi. Era una donna molto ospitale e amava accogliere persone in casa. Spesso il maestro Giovanni Siravo, quando rientrava da scuola, passando davanti casa sua sentiva odore di cucinato e chiedeva: “Peppiné che hai preparato a pranzo oggi?”. Lei rispondeva “Sagne e fagioli!” oppure “Polenta”” e lo invitava a tavola.

Peppnella amava curarsi e aveva un appuntamento fisso: con la parrucchiera, ogni settimana, perché i capelli bianchi non le piacevano proprio. Adorava i vestiti colorati e le terme di Riccione, dove si recava ogni anno in vacanza.

Ha gestito il bar per circa 25 anni, fino al novembre del 1980, quando il locale è passato nelle mani di uno dei suoi sette figli, Italo.

È andata via il 9 giugno del 2014, appena un mese dopo il suo caro Tito.

 

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